Kant e la zia Dimma

di Mauro Del Bue

Un primario di neurochirurgia, il più grande della storia della filosofia, che abbia operato sul cervello umano, un attento scrutatore e selezionatore della mente e dei suoi infiniti e inesplorati rigagnoli di potere, Immanuel Kant era anche molto utile ai suoi vicini di casa. Era un tipo davvero svizzero (anche se era tedesco, nato a Koenigsberg nel 1724). I suoi vicini infatti regolavano l’orologio a seconda delle sue passeggiate. Kant spaccava il secondo. E magari cantava anche alle 12 in punto e alle 16 di ogni giorno. O forse fischiettava. E quando un giorno si presentò con quasi un minuto di ritardo (era il 1789) era perché era stata presa la Bastiglia (uno degli avvenimenti più importanti della storia dell’umanità). Mai ritardo fu più giustificato.

Una volta una sua anziana vicina di casa gli raccontò la storia di un fanfarone che diceva robe da matti e lui ci pensò sopra e scrisse un libro sulla follia della metafisica: “I sogni di un visionario chiariti con i sogni della metafisica”. Dove il termine “chiariti” era davvero ironico. Libro che certo regalò all’amica con tanto di dedica. Eppure Immanuel, che studiò al collegio (la madre era cattolica) e vi apprese la cultura religiosa e la filosofia allora imperante del pietismo, e poi all’Università, con tanto di insegnamenti di logica, di fisica, di matematica, non considerava la metafisica come un reato. Anzi, l’userà più avanti anche nel suo trittico famoso sulla ragione. Come Verdi infatti scrisse la sua trilogia (Rigoletto, Traviata e Trovatore) e Wagner la sua tetralogia (L’oro del Reno, Walkiria, Sigfrido e Crepuscolo degli Dei), anche Kant è famoso per la sua trilogia: Critica del ragion pura, Critica della ragion pratica e Critica del giudizio. La differenza è che al posto della musica ci sono pezzetti di cervello umano vivisezionati, estratti, esaminati. E funzioni multiple e moltiplicate. Ma ci arrivò per gradi e per scoperte successive, sempre operando, analizzando, sistemando, col camice bianco, il bisturi in mano e il monitor acceso. Per capire Kant, ed è tutt’altro che semplice, bisogna pensare a tre cose: che l’illuminismo aveva diffuso l’idea di una ragione onnicomprensiva, che però si fermava di fronte ad alcuni possibili campi d’azione, che le scoperte di Newton sulla forza gravitazionale universale avevano indotto a cogliere il senso di alcune verità oggettive e universali che Kant assumeva come tali nel campo della fisica e della matematica, e che la filosofia di Leibniz e di Hume lasciava aperti alcuni interrogativi inerenti il rapporto tra il soggetto e l’oggetto della conoscenza. E lì arrivò Kant, nel secolo dei lumi, della rivoluzione, delle scoperte scientifiche, del passaggio dall’illuminismo e al romanticismo e all’idealismo tedesco. E provò a dire la sua. Da docente dell’università di Koenisgberg, dove resterà per tutta la vita, si mise a scrivere e ad operare. Convenzionalmente la sua attività si divide in due fasi: la pre-critica e la critica. Tutto quel che ha scritto prima della magica trilogia sulla ragione e poi, appunto, la trilogia sulla ragione. Teniamo presente che il suo primo libro sulla ragione (Critica della ragion pura) lo scrive al’età di 60 anni. E dunque a quelle supreme e complesse sistemazioni arriva dopo lunga maturazione. Nella prima fase appartengono alcuni libri di carattere scientifico (tra i quali “Pensieri sulla vera valutazione delle forze vive”), poi un trattato sull’illuminismo (sapete cos’è l’illuminismo?: “E’ l’uscita dell’uomo dalla sua minorità ch’egli deve imputare a se stesso”), uno sulla religione, (l’esistenza di Dio non la si può dimostrare con la sua essenza, ma solo sul piano logico, perché dev’esserci una realtà che non è causa di nulla, un po’l’idea del motore immoto di Aristotele). E poi arrivò alla prima Critica, quella della ragion pura. Qui la grande novità kantiana sta, da un lato, nel completo capovolgimento (rivoluzione copernicana) del rapporto tra soggetto e oggetto, che già era presente in Hume, ma che trova qui la sua più completa sistemazione (la realtà è nel soggetto, è lui che crea l’oggetto e non viceversa), e dall’altro nella sistemazione analitica e sintetica del processo della conoscenza. Diciamo così, se con Hume e anche Leibniz c’erano solo due livelli di conoscenza, quella “analitica a priori”, che era scontata e tautologica (“il triangolo ha tre lati”, cioè ha sempre tre lati e quando ci sono tre lati in una figura geometrica si tratta di un triangolo. E’ una verità che si compone di una qualificazione che non aggiunge nulla al soggetto. Dopo il soggetto triangolo non ci possono essere a seguito della qualificazione le parole quattro lati, cinque lati, sei lati, così come dopo Monti non ci può essere che Monti, statene certi). Poi ci sono conoscenze che si formano attraverso l’esperienza. E che vengono definite “sintetiche a posteriori”: “Alcuni uomini hanno le gambe corte”. Bisogna dimostrarlo chi sono e dove sono. Perché ce ne sono altri che le gambe le hanno lunghe. Si tratta dunque di verità relative e non assolute e necessarie. Come dire: “Bersani governerà meglio”. Bisogna dimostrarlo. Mica si può accettare come verità analitica, serve l’esperienza. Dunque le conoscenze necessarie e assolute sarebbero solo quelle analitiche che sono però scontate, e anche un po’stupide. E’ mai possibile? E qui arriva Kant che ti dice: “Nossignori. Esistono anche le conoscenze “sintetiche a priori”. Non c’era mica arrivato nessuno. Com’è possibile? E’ come dire che Berlusconi è di sinistra e che Di Pietro è colto. E’ possibile. E devono essere accettate senza bisogno di essere dimostrate. Cioè: “5 più 7 uguale a 12”, mica c’è bisogno di farsi venire il mal di testa a provarlo, no? Ma sì, puoi prendere il 5 e separarlo dal 7, ma se lo metti col 7 separandoli dal più e fai la somma c’è sempre il 12, comunque lo giri e lo rigiri. Per Hume bisognava dimostrare anche questo e lui arrivava al paradosso che non esistevano verità assolute (nemmeno quelle matematiche), se non quelle analitiche e si disperava un po’. Lui voleva dimostrare l’esistenza del 5 e del 7, del più e dell’uguale e infine del 12, un gran casino. No, niente casino e niente separazione degli elementi. Questa è una conoscenza sintetica a priori. E’ così e la dovete accettare. Riguarda la matematica, la geometria, la fisica, la logica, ma anche la morale, come si vedrà dopo. Mia zia Dimma diceva, ad esempio, “Me agò la me idea” (Io ho la mia idea) e sapevamo bene quale. E non c’era verso che lei la dimostrasse. Era un’idea a priori. Era così dalla nascita. Aveva la sua idea politica. Era convinta che si nascesse con questa idea per la rivoluzione  proletaria. Aveva capito Kant e lo stava applicando nella politica. Il neurochirurgo da qui parte per individuare la conoscenza sensibile che porta al fenomeno (cioè alla realtà come ci appare) e al noumeno (cioè alla realtà com’è e che però non si può cogliere, se non attraverso il pensiero). E qui riemerge ancora il primario che indaga, asporta, analizza, reimpianta. Noi percepiamo i fenomeni attraverso le sensazioni o le percezioni nello spazio e nel tempo, che sono forme a priori (ma dai, il tempo è relativo, caro Kant…), poi interviene l’intelletto e come una macchina che impasta prende farina, olio, lievito, sale, acqua. E lavora con 12 categorie, ognuna delle quali dotata di quattro qualità e ti sciorina il pane e cioè la conoscenza fenomenologica. Dodici per quattro fa quarantotto e la mente umana, l’intelletto, come lo chiana Kant, è ancor più vivisezionato. Noi infatti ci conosciamo non per quel che siamo, ma per quel che pensiamo di essere. Ci conosciamo fenomenologicamente e non noumenicamente. Cosa sia il noumeno, cioè la conoscenza della cosa in sè se non si riesce mai ad afferrare la cosa in sè è piuttosto difficoltoso accettarlo. E qui Kant che ti pass…che è meglio, diceva un mio amico di Bari. Qual’ è l’errore che si fa sull’esistenza di Dio? Che si trasforma l’Io penso, che è funzione, in sostanza. E dunque si arriva all’esistenza di Dio, sol perché esiste il concetto di perfezione attribuito a Dio, che noi possiamo solo pensare. Ma non tutto quel che pensiamo esiste. Se io penso di avere un milione di euro, mica ho un milione di euro, no? Magari dal pensiero nascesse come conseguenza diretta la realtà. Sai te quante Belen avrei potuto impalmare? Ma quel che di Kant ci resta di attuale sono le idee delle successive sue critiche. Certo tutte dedotte dalle sue conoscenze sintetiche a priori, la sua tecnica micidiale di assalto alla filosofia precedente. Diciamo allora che a suo giudizio la legge morale deve richiedere giustizia e che la felicità non può esistere sulla terra e deve’esserci un altro mondo, un’altra terra e un’altra felicità. Si arriva così all’esistenza di Dio, un po’ in contrasto con quella precedentemente esposta. Perché anche Kant aveva le sue contraddizioni come quando imponeva al suo badante di svegliarlo tutte le mattine alle cinque e poi lo offendeva di brutto. Che cos’è la virtù? E’ una qualità a priori. Non c’è virtù se è rapportata alla convenienza. Io sono buono perché ne avrò un premio o io sono generoso perché ci sarà una ricompensa, non va mica bene. No. Per il neurochirurgo i commercianti di oggi non devono pagare le tasse perché se no vanno in galera. Le devono pagare perché è giusto e perché è nella legge. E quelli di Cortina non devono arrabbiarsi se arriva la Guardia di finanza, ma devono anzi essere contenti perché l’irruzione consente loro, se non di essere virtuosi, almeno di cominciare a diventarlo. Quelli di Cortina non hanno certamente letto Kant e la zia Dimma per questo ce l’ha molto con loro. Ci sono due imperativi morali, infatti, cari evasori. Uno definito ipotetico. E cioè sempre rapportato a un obiettivo e l’altro invece categorico e cioè non rapportato ad alcun obiettivo, ma solo alla legge, e adesso magari all’autorità del governo Monti. E cioè sono buono e accetto che venga tagliata la mia pensione perché lo ha deciso Monti, non perché poi merito il paradiso, sono virtuoso perché me lo chiede anche Bersani, non perché poi avrò un premio dalla De Filippi. Ma senza mai secondi fini. Che anche Monti sia una categoria a priori col suo governo dei tecnici tutti a priori, mai eletti e designati da alcuno, tranne Malinconico che a posteriori si è ricordato di una lussosissima vacanza pagata da altri la vuol pagare due volte? Nel suo libro “Pace perpetua” del 1795, tre anni dopo la rivoluzione francese, che giudicava illegittima, ma positiva, perché dovevano essere i popoli a scegliere se fare la guerra, e non i sovrani, che la facevano in pantofole, e nel bel mezzo del terrore, Kant ipotizza una società libera e un mondo in cui le singole nazioni siano federate. Una sorta di globalizzazione politica oggi necessaria davvero, anche a posteriori dalla globalizzazione economica. E sceglie un governo repubblicano, anche se non nel senso classico, dove però l’esecutivo e il legislativo siano separati. Non necessariamente democratico però, perché la democrazia è spesso la prevaricazione della maggioranza sulla minoranza, come la Francia del terrore stava dimostrando. Il vincolo dei vari stati era appunto la pace perpetua, che sarebbe stata più garantita dai popoli che dei sovrani. In quest’ultimo caso sbagliava di grosso, perché a volte sono stati proprio i popoli (vedasi piazzale Venezia e Berlino) a volere la guerra, o quanto meno ad approvarla entusiasticamente perché non sapevano prevederne i rischi. Ma anche questo lo si è saputo a posteriori. La conoscenza sintetica a priori non aveva ancora attecchito…

(Pubblicato originariamente il 12 Gennaio 2012)

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