New York. L’idea della politica di “tolleranza zero” contro la microcriminalità di cui tanto si parla oggi in Italia è nota per essere stata applicata (anche sui lavavetri) dal sindaco di New York, Rudy Giuliani, negli anni Novanta, ma in realtà è stata elaborata a metà degli anni Settanta in New Jersey da un governatore del Partito democratico. Il piano anticriminalità del New Jersey si chiamava “Safe and Clean Neighborhoods Program” e consisteva nel fornire soldi e mezzi alle varie città dello stato per far uscire i poliziotti dalle macchine e dislocarli per strada. In quel testo apparve per la prima volta la definizione “zero tolerance”. La cosa sembrò finire lì. Nel marzo 1982, però, due studiosi neoconservatori del Manhattan Institute, il centro studi newyorchese che diventò la fucina di idee della sindacatura Giuliani, scrissero un articolo sul mensile liberal The Atlantic Monthly a cui fu dato un titolo apparentemente oscuro: “Broken Windows”, “finestre rotte”. La teoria era spiegata così: “Prendete un palazzo con poche finestre rotte. Se le finestre non vengono riparate, i vandali tenderanno a rompere anche le altre finestre. Alla fine, potrebbero anche entrare nel palazzo e, se libero, potrebbero occuparlo oppure dargli fuoco. Considerate anche un marciapiede dove si accumulano i rifiuti. In poco tempo la spazzatura aumenta. La gente comincia anche a lasciarci i sacchetti con i resti del cibo acquistato nei bar”. I due autori sostenevano che la migliore strategia per prevenire gli atti vandalici fosse quella di risolvere i problemi quando erano ancora allo stato embrionale, riparando quelle finestre entro pochi giorni dalla loro rottura e pulendo i marciapiedi regolarmente. In questo modo i problemi non diventano grandi, gli episodi di piccolo vandalismo diminuiscono e i residenti perbene di quei quartieri non progettano di andarsene. Tutto ciò, secondo i due studiosi neocon James Q. Wilson e George L. Kelling, di per sé non avrebbe fatto diminuire il numero dei reati più gravi, ma certamente avrebbe aiutato a ridurne la percezione tra i cittadini.
Non è una cosa da niente, non è nemmeno un’operazione di facciata come quando si nasconde la polvere sotto i tappeti. La vitalità di una città dipende esattamente da questo, dal senso di sicurezza percepito dagli abitanti. Una lezione che, riguardo all’Iraq, George Bush ha imparato soltanto da qualche mese. Quell’articolo di Wilson e Kelling del 1982 è diventato il manifesto intellettuale della politica anticriminalità di Giuliani, quando dodici anni dopo l’ex procuratore italoamericano è stato eletto sindaco di New York. A questo approccio, Giuliani ha aggiunto un sistema computerizzato di monitoraggio e controllo delle denunce dei reati e delle conseguenti attività di polizia chiamato Compstat, oggi usato quasi ovunque. Il metodo statistico ha consentito ai veritici della polizia di individuare con certezza le zone dove si commettevano con più frequenza i reati e di modulare di conseguenza la risposta preventiva o repressiva della città. Il sistema, inoltre, ha permesso di delegare quasi integralmente la gestione delle attività di polizia ai comandanti delle piccole stazioni di quartiere, le cui performance sono poi valutate in base a risultati oggettivi. Giuliani ha fatto un’altra cosa, promessa anch’essa in campagna elettorale e sostenuta a livello federale da Bill Clinton: ha tolto l’assistenza pubblica a mezzo milione di persone che, grazie ai sussidi, si poteva permettere di non lavorare e si dedicava a piccoli o grandi atti di vandalismo. I poliziotti di Giuliani non davano tregua ai ragazzi sfaccendati dei quartieri più pericolosi, fino ai limiti del mobbing, costringendoli infine a cercare e trovare lavoro. Secondo un articolo di Repubblica di ieri, i tagli al welfare sono stati il prezzo pagato dalla città per avere più poliziotti per strada, ma in realtà il taglio dell’assistenza sociale è stato uno dei pilastri della politica di tolleranza zero promessa da Giuliani. Nel 1993, inoltre, New York era una città considerata unanimemente “ingovernabile” e “senza speranza”, proprio a causa della piccola e grande criminalità (secondo Repubblica, invece, non era messa poi così male).
Tra il 1990 e il 1993, di media, si contavano oltre 2.000 omicidi l’anno, interi quartieri erano infrequentabili, la gente aveva paura. New York era in fondo a tutte le statistiche del paese. La polizia newyorchese, anche per evitare accuse di razzismo, aveva smesso di punire o prevenire i piccoli comportamenti sociali definiti burocraticamente “disordinati” e, di fatto, aveva decriminalizzato i cosiddetti “reati senza vittime”. Eppure era evidente che i reati gravi si moltiplicavano proprio dove regnava il disordine sociale. I newyorchesi che se lo potevano permettere cominciarono a scappare nei sobborghi o altrove, 340 mila posti di lavoro, in quel periodo, sono scomparsi o si sono trasferiti. Giuliani aveva un passato da procuratore antimafia e collaboratore di Ronald Reagan. Si è presentato alle elezioni con uno slogan “One city, one standard”, promettendo di ridurre il crimine, di riformare il welfare state e di migliorare la qualità della vita. I newyorchesi erano e sono a stragrande maggioranza liberal, ma erano anche stanchi e insoddisfatti della loro qualità di vita, così gli hanno affidato le chiavi di City Hall. Quattro anni dopo, Giuliani è stato rieletto con il 57 per cento dei voti. Durante i suoi anni, grazie anche alle qualità del capo della polizia, William Bratton, i reati violenti sono diminuiti del 75 per cento, i crimini in generale del 56 per cento, gli omicidi del 66 e quella che fino a pochi anni prima era stata definita “la capitale criminale del paese” è diventata, secondo l’Fbi, la metropoli più sicura d’America. Non solo. Il trend positivo dura ormai da diciassette anni e l’impatto della criminalità sulla città è pari a quello registrato in una piccola cittadina dell’Idaho, Boise. Giuliani ha messo in pratica la teoria delle “broken windows”, più la riforma del welfare e il controllo statistico del crimine, scatenando i poliziotti in giro per la città. La tolleranza zero è scattata in particolare nel modo più spettacolare possibile, contro chi non pagava il biglietto della metropolitana, contro chi urinava per strada, contro la prostituzione a Times Square e anche nei confronti degli “squeegee men”, ovvero i lavavetri che fermavano le macchine ai semafori pretendendo in cambio qualche spicciolo. Poi è toccato ai tassisti che superavano i limiti di velocità e ai pedoni che attraversavano la strada con il semaforo rosso. La polizia si faceva sentire. I metodi erano spesso ruvidi e arroganti, tanto che Giuliani e il Dipartimento di polizia hanno dovuto affrontare oltre settantamila cause intentate da cittadini perquisiti o fermati dai “cops”.
Ci sono stati anche casi in cui la brutalità dei poliziotti ha portato all’uccisione di un cittadino innocente e disarmato, Amadou Diallo, con 41 colpi di pistola. Nei salotti di Manhattan, ha scritto Matt Bai sul New York Times Magazine che uscirà domenica prossima, di Giuliani si dicevano le peggiori cose e non mancava mai l’accusa di adoperare metodi fascisti, ma in realtà dormivano tutti molto più tranquilli sapendo che c’era lui a combattere contro i demoni della città. Quella partita è stata vinta e, ora, l’ex sindaco punta proprio su questa sua innata predisposizione alla battaglia per convincere gli americani a farsi guidare da lui nella guerra contro l’islamismo terrorista. I critici dell’era Giuliani sostengono che la diminuzione dei crimini sia da attribuire all’aumento del numero dei poliziotti, deciso dal predecessore democratico David Dinkins, alla legge anticrimine di Clinton e al boom economico che ha contribuito a far trovare lavoro ai disoccupati. Negli stessi anni, inoltre, proprio per queste stesse ragioni, il numero dei reati è diminuito in tutti gli Stati Uniti. Giuliani non lo nega, ma ricorda che il numero di reati a New York è sceso sette o otto volte più della media americana.
Tratto dal blog RomaFaSchifo (LINK)