Tratto da Huffington Post (LINK)
di Alastair Campbell (Ex responsabile della comunicazione di Tony Blair)
Anche se un’inchiesta potesse fornire alcune risposte alle domande che le persone si stanno facendo oggi, la verità è che nessuno di noi saprà mai, anche se avesse lasciato qualcosa di scritto, cosa aveva in mente Robin Williams nei momenti finali della sua vita ricca ed arricchente. Nessuna persona è uguale a un’altra. Nessuna depressione è uguale a un’altra. Ma la sua morte dimostra ancora una volta che la depressione non guarda in faccia alla classe, alla razza, alla professione, alla ricchezza o al talento. Sua moglie, Susan Schneider, ha detto oggi: “Quando sarà ricordato, speriamo che ci si concentrerà non sulla sua morte, ma sugli innumerevoli momenti di gioia e risate che ha regalato a milioni di persone”.
È certamente facile richiamare alla memoria i momenti di gioia e di risate. Ogni genitore potrebbe elencare una serie di suoi film da guardare e riguardare perché i propri figli amano guardarli e riguardarli, come fu a casa mia con Mrs Doubtfire. Ma trovo difficile non concentrarmi in qualche modo sulla morte di Robin. Viviamo in una cultura delle celebrità, ci piaccia o meno. Significa che in tutto il mondo nei prossimi giorni le persone parleranno di questo terribile evento, riflettendo non soltanto sulla sua carriera ma sulla realtà della sua malattia, che l’ha portato alla morte. Sarà per sempre ricordato per il suo talento e per le sue qualità comiche, e i film resteranno lì per divertire le generazioni future. Ma spero anche che sarà ricordato come qualcuno la cui morte è stata un altro passo verso un cambiamento davvero necessario nella nostra società, quello del modo di porsi nei confronti della malattia fisica e mentale.
Se avesse avuto un infarto, se avesse perso una lunga battaglia con il cancro, se fosse stato ucciso da una macchina, sarebbe necessario un dibattito del tipo “cosa aggiunge questo allo status delle malattie del cuore, della cura del cancro o della sicurezza nelle strade”? Forse, ma ne dubito. C’è invece ancora bisogno di dibatter sulla depressione come malattia, perché ancora non si capisce fino in fondo che tipo di malattia sia.
Quasi esattamente un anno fa, nella stessa stanza in cui sono seduto ora, ho detto alla mia partner Fiona che onestamente non vedevo più un senso nella vita. Non era la prima volta che lo dicevo, non era la prima volta che mi sentiva dirlo. Cosa intendevo era che la depressione che avevo sentito attanagliarmi nei giorni precedenti aveva raggiunto il suo impatto più spaventoso, rendendomi fisicamente debole, psicologicamente sfinito ed emotivamente disperato. Fiona ne aveva viste abbastanza – almeno una o due volte, o anche di più, nei 35 anni che abbiamo passato assieme – per sapere che era improbabile che portassi quel pensiero alla sua logica conclusione. Né io credo che lo farei mai, anche se ogni volta che qualcuno lo fa, come Robin Williams, ti fa domandare quante volte è sopravvissuto a dei pensieri suicidi prima di soccombere, alla fine.
Sono fortunato perché ho una famiglia che mi supporta e mi capisce, un piccolo numero di buoni amici, e un dottore di cui mi fido. Quando abbiamo parlato, mi ha dato altri anti-depressivi e li ho continuati a prendere da allora, nel periodo di trattamento più lungo della mia vita. Le molte persone che ho incontrato da allora, negli ultimi dodici mesi, non ne hanno idea, e non è qualcosa che direi a meno che non me lo si chieda – ho preso la decisione dopo il mio esaurimento nel 1986, sempre per essere aperto.
Potrei anche avere interrotto i farmaci a un certo punto negli ultimi mesi. Ma tra noi, io e il mio psichiatra, abbiamo deciso di no. Non mi piace essere sotto farmaci, ma è meglio che essere depresso. E l’ultima volta, quando ho smesso dopo tre mesi, sono quasi subito ricaduto in una depressione durissima.
Quindi ho continuato a prendere le pillole per minimizzare l’impatto di quei sentimenti che portano una persona, che per la maggior parte del tempo ha una visione abbastanza positiva del mondo, che ama ridere e fare ridere le persone, pensare e fare pensare le persone, a considerare che la vita non vale davvero la pena di essere vissuta. Aprirmi mi è stato di grande aiuto, lo so. Non so se Robin Williams era aperto con gli altri riguardo alla sua depressione. Ma conosco delle persone in varie fasi della vita che lo trovano impossibile.
Una delle cose che derivano dall’ammettere di avere problemi di salute mentale, e dall’essere un ambasciatore della campagna Time to Change, è che dei perfetti sconosciuti ti vengono a parlare dei loro problemi di salute mentale personali. A un incontro recente a Westminster, mi sono veramente commosso quando Tracey Crouch dei Tory mi ha detto di avere deciso di ammettere apertamente la sua depressione dopo avermi sentito parlare a Radio Kent. Un altro uomo all’incontro ha detto di essersi aperto dopo avermi sentito parlare di depressione in Cornovaglia.
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A quelli tentati oggi di chiedersi i motivi della depressione di Robin Williams, con il suo successo, la sua fama, la ricchezza, la bella casa, la bella famiglia, migliaia di opportunità e meravigliosi momenti passati nella sua vita, per favore, smettetela. Se fosse morto di cancro, vi domandereste per quale motivo si è fatto venire un cancro? Se fosse stato investito, vi domandereste perché è uscito e si è fatto investire?
È venuto il tempo di Time to Change. Perché è tempo di cambiare i nostri atteggiamenti, francamente ancora da medioevo, nei confronti della depressione e delle altre malattie mentali. Un giorno, ci guarderemo indietro e ci chiederemo come è stato possibile credere che la depressione fosse una scelta di stile di vita, da prendere seriamente e discutere solo quando un attore di prima categoria ha deciso di togliersi la vita, e il mondo si è riempito di persone che si dicevano shoccate e intristite.
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