La grande bellezza…stereotipata

Tratto dal sito Lettera43.it (LINK)

di Enzo Ciaccio

Per lui La grande bellezza, il film di Paolo Sorrentino premiato a Los Angeles con l’Oscar per la migliore opera straniera, «descrive la città di Roma esattamente come piace immaginarla agli americani», con «le feste notturne, la folla dei prelati, i santi, i peccati e le mille sacrestie». Insomma, più che un’opera d’arte in senso tradizionale, il film di Sorrentino «è un riuscito spot pubblicitario che il governo dovrebbe premiare per gli indiscutibili benefici che arrecherà al turismo italiano».
GLI STEREOTIPI SULL’ITALIA. «Perciò», spiega a Lettera43.it Philippe Daverio, 64 anni, critico d’arte, giornalista e conduttore televisivo di madre alsaziana e padre italiano, «poco o nulla importa se la Roma raccontata ne La grande bellezza sia bella, brutta o addirittura totalmente inventata dal regista a uso e consumo degli stereotipi che tanto piacciono al pubblico d’Oltreoceano».
«UNA PARODIA DI FELLINI». Attaccato da Beppe Grillo per aver sostenuto che in Italia «è in atto un’inarrestabile corsa verso la trashologia» (cultura del trash), Daverio discute del film di Sorrentino («È la parodia della Roma di Fellini», sostiene) e della difficoltà a definire un moderno concetto di bellezza «in una fase in cui tutto in Italia si fa elementare nel nome della imperante banalità».

DOMANDA. Che cosa trova di irrealistico nella Roma raccontata da Sorrentino?
RISPOSTA. Le feste di notte, i santi, i prelati, i patrizi, le sacrestie: sullo schermo vediamo una città che esiste solo nella fantasia del regista. Come era già accaduto nel film Baarìa di Giuseppe Tornatore.
D. In che senso?
R. La Roma di Sorrentino, come la Sicilia firmata Tornatore, sono volutamente descritte in maniera pittoresca ricorrendo a tutti i luoghi comuni che piacciono molto al pubblico americano.
D. Perché puntare sul pittoresco?
R. Perché, come aveva già intuito Benito Mussolini, lo stereotipo paga. E rende bene in termini propagandistici.
D. Detto così, sembra che il film sia nato da intenti cinici.
R. La grande bellezza è un magnifico spot pubblicitario. Il governo dovrebbe premiarlo per l’abilità con cui descrive gli italiani in base a quel che gli altri, all’estero, amano immaginare che noi siamo.
D. Ne parla come di una mistificazione.
R. Lo è. Perciò è piaciuto tanto in America e sta avendo successo.
D. In Italia critica e pubblico si sono divisi nel giudizio.
R. Già, e sa perché?
D. No.
R. Perché molti fra noi si vedono diversi. E non si riconoscono nel cliché che da sempre gli americani ci disegnano addosso.
D. Quali cliché?
R. Roma con le sue feste di notte, Napoli con la pizza, l’immondizia e il mandolino, Venezia con le gondole. Devo continuare?
D. Insomma, non le è proprio piaciuto.
R. Come spot, quel film va benissimo. E va premiato.
D. E come opera d’arte?
R. L’opera d’arte non è mai bella o brutta in sé, ma può – o meno – rappresentare la bellezza. Stiamo vivendo una fase di decadenza che banalizza tutto: la chiamo trashologia.
D. Che vuol dire?
R. I cinesi con le bacchette, gli italiani che bevono il vino, i tedeschi che mangiano wurstel: siamo diventati troppo elementari, banali, icastici fino all’estremo.
D. Perché?
R. Per il bisogno, sempre più parossistico, di far giungere e far riconoscere i nostri messaggi il più lontano possibile.
D. Sorrentino, ringraziando per l’Oscar, ha citato Fellini: quanto la sua Roma assomiglia a quella narrata dal regista riminese?
R. Trovo giusto il richiamo a Fellini.
D. Ah sì?
R. Certo. Qualsiasi operazione di parodia ha l’obbligo di partire dall’originale.
D. La grande bellezza è la parodia della Roma felliniana?
R. Di Roma, Fellini aveva intuito la complessità viscerale: il suo film è stato un capolavoro barocco.
D. La grande bellezza, invece?
R. È come passare dai meravigliosi mobili del 700 a quelli confezionati in serie nel mobilificio. Ma ciò non è colpa del regista Sorrentino: l’involuzione è nell’aria. Complessiva. Frustrante. E contestuale.
D. Quando si può parlare di opera d’arte?
R. Quando l’opera contiene un messaggio vero, complesso, articolato.
D. Altrimenti?
R. È solo un’opera di comunicazione.
D. Il gusto per il Bello si è definitivamente smarrito?
R. Non mi sento attratto dal Bello, piuttosto da ciò che è significativo.
D. In che senso?
R. Il Bello è un fenomeno di comunicazione. Può essere utile all’Italia, come nel caso del film di Sorrentino, perché piace all’estero e fa crescere il turismo.
D. E il significativo?
R. Sostengo che, per sensibilità e curiosità psichica, c’è un 5% di italiani in grado di cogliere quel che affiora di veramente significativo. Si tratta di quasi 5 milioni di persone, soprattutto giovani.
D. Sono pochi o molti?
R. È un numero in crescita. E molto più elevato che in altri Paesi europei dove la gente è meno dinamica.
D. La curiosità cresce, ma in Italia non è molto aiutata dall’industria culturale. O no?
R. In Italia l’industria culturale è poco dinamica per mancanza di offerta, ma non certo per carenza di domanda. Le mie lezioni, per esempio, sono sempre sovraffollate.
D. Come fanno i giovani a non farsi divorare dal conformismo, se in pochissimi li aiutano a crescere?
R. Gli italiani sono molto più avanti rispetto alla loro politica. La scuola è in confusione totale: dopo la cura devastante del ministro Gelmini, può fare ben poco.
D. Appunto. Chi aiuterà i giovani? Lei ha scritto di una funzione-guida da attribuire alla comunità «degli educati e dei consapevoli».
R. Confermo. La comunità dovrà agire soprattutto a favore dei ragazzi.
D. Dove siamo? E dove stiamo andando?
R. È l’epoca del conformismo. E del banale. È iniziata negli Anni 90, quando si è diffusa una politica di basso livello, parallela alla nascente cultura trash che ancora imperversa.
D. Esiste o no un’opposizione al dominio del trash?
R. La reazione organizzata alla cultura dominante di Berlusconi firmata Arcore è quella espressa dal Movimento 5 stelle firmata Grillo. Cioè, una cultura parimenti legata alla banalizzazione del messaggio.
D. Esiste una via d’uscita?
R. La salvezza sta in internet, nei nuovi strumenti di comunicazione che faranno fuori la tivù tradizionale.
D. Nel frattempo?
R. Preferiamo semplificare, per indorare la pillola.
D. Anche nel cinema?
R. L’ultimo regista che ha raccontato la passione incrociando poetica e complessità è stato Wim Wenders. Ma cito anche Woody Allen, che ha saputo giocare con la complessità e l’ironia.
D. Sorrentino, oltre a Fellini, a Los Angeles ha ringraziato anche Diego Armando Maradona.
R. Ha fatto benissimo: Maradona è l’archetipo della comunicazione facilitata.

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